Onsen

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Ho le braccia incrociate sul petto e un piccolo asciugamano in testa. Alle vasche d’acqua calda all’esterno della struttura si arriva sempre dopo avere attraversato un corridoio lunghissimo e dalla temperatura glaciale. Cerco di percorrerlo con dignità, come se il freddo non mi stesse attanagliando, ma non riesco a camminare lentamente come fanno le Giapponesi. Per non correre zampetto e, in fin dei conti, non so se sia molto più dignitoso.

Alla fine del corridoio mi aspettano le vasche più belle che io abbia visto fino ad ora: incastonate nella roccia e incorniciate da stalattiti di ghiaccio e piccoli pupazzi di neve. I pupazzi di neve sono il passatempo preferito delle donne giapponesi nelle onsen: li modellano con cura e li dispongono attorno alle vasche in piccoli gruppi, forse per rinfrescarsi, forse per rilassarsi. Ci sono abeti carichi di neve tutto attorno. Ad un certo punto Giusy ed Ilaria mi fanno notare che c’è anche la luna.

Mentre noi facciamo le ninfe nella nostra onsen femminile, i ragazzi stanno facendo i punk in quella maschile. Anch’io vorrei tanto essere, per una volta, un pochino sovversiva e fotografare questo splendore di posto nonostante sia contro le regole. Dopo la giornata che ho passato oggi, però, proprio non ne ho voglia di uscire dalla vasca, ripercorrere il corridoio con le braccia serrate sul petto, prendere il telefono e tornare indietro.

Oggi io e Checco siamo arrivati qua dopo tutti gli altri perché ci siamo persi facendo sci alpinismo. Forse non lo dovrei scrivere, ché se me lo raccontasse qualcun altro non gli darei neppure il tempo di finire la frase: “Ma come! In montagna non si resta mai soli!” Però è successo che ci siamo separati in due gruppi: uno che tornava a valle dopo la prima discesa, uno che saliva ancora un po’ con le pelli e faceva una seconda discesa prima di rientrare. Ed è successo che questo secondo gruppo si sia diviso in altri due sottogruppi: quello che è arrivato in cima ed è sceso dritto al parcheggio e quello che non è arrivato in cima ed è sceso storto. E io e Checco eravamo il secondo sottogruppo.

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La prima salita era stata stupenda: avevamo guadato un fiume, attraversato un bosco di abeti altissimi, dieci, venti, cinquanta volte più alti di noi e tutti bianchi. Eravamo arrivati su un crinale freddissimo e battuto dal vento dove avevo dovuto impegnarmi tantissimo per mantenere la calma ed effettuare il cambio ciaspole – snowboard nel minor tempo possibile.

La seconda salita era invece stata più difficile: le ciaspole scadenti che avevo noleggiato mi avevano tradita ed ero scivolata giù dal sentiero. Solo i mesi di palestra mi avevano permesso di risalire e rimettermi in piedi, nonostante una ciaspola si fosse girata e lo snowboard si fosse impigliato in una betulla. Siamo rimasti indietro, non abbiamo incrociato le tracce degli altri che erano scesi più in alto e siamo arrivati a valle, da qualche parte.

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C’era il fiume che avevamo guadato al mattino; c’era, in lontananza, la diga che avevamo visto al mattino, ma non c’era un sentiero né un guado per tornare alla strada. In contatto radio con Testo e Davide abbiamo camminato, con le ciaspole scadenti e le pelli, per un sacco di tempo. Non so quanto, ma in quel tempo ho imparato un sacco di lezioni:

  • Vale la pena togliersi i guanti e controllare l’orario in situazioni di difficoltà.
  • Quando prima di partire per un viaggio ci si domanda se sarebbe opportuno portare la frontale, la risposta deve essere sì.
  • Per affrontare giornate impegnative in montagna, devo anche avere attrezzatura di cui mi fido. Possibilmente mia.

Mentre camminavamo ho un po’ temuto che tramontasse il sole e che rimanessimo dispersi, dopo il buio, in una valle ghiacciata in una sera gelida. Checco continuava ad avanzare convinto di stare andando nella direzione giusta, ma io vedevo solo che eravamo leggermente in discesa e avevo paura di dover rifare tutto in leggera salita.

Poi abbiamo incontrato altre persone, ci abbiamo parlato ed abbiamo capito di essere arrivati troppo alti, alla diga sbagliata. Dopo poco abbiamo ritrovato il sentiero  del mattino e attraversato il fiume camminando su un ramo di pino. Davide, Testo e Giovanni ci stavano aspettando e, manco a dirlo, erano bellissimi.

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Quindi non ho voglia, ora, di uscire dalla vasca e prendere il cellulare. Del resto sono quasi certa che i punk immortaleranno tutto, quindi a me non resta che immagazzinare la scena: l’acqua calda, il vapore. I toni dell’azzurro dell’acqua che si mescolano ai toni del bianco della neve che si mescolano ai toni del marrone delle rocce e del legno. Se tengo le spalle fuori dall’acqua non sento freddo, ma se le immergo mi accorgo che in realtà stavano ghiacciando. Giro le braccia in modo da avere i palmi delle mani rivolti verso l’alto: è il modo che mi ha insegnato mia sorella per respirare di diaframma. Agnese è di fronte a me, le spuntano fuori dall’acqua solo la testa e le punte dei piedi e sembra davvero una ninfa. Fotografo la scena con la mente: l’acqua, il vapore che sfuma tutto, lei che galleggia a filo d’acqua, la roccia, il ghiaccio, la neve, la luna, il cielo.

 

Onsen

Tempo di pelli, tempo di ciaspole

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C’è poca neve. Un metro e settanta circa, pochissima neve. Che un metro e settanta sia poca me lo ha detto l’Australiano incontrato in cabinovia il primo giorno di sci; me lo ha detto, storcendo il naso e senza parole, Checco. Me lo sta facendo capire Oreste, che dal telefono segue il meteo in costante attesa dell’annuncio di una perturbazione. Lo dice, alla fine, anche Testo, il nostro accompagnatore in capo, prima di chiedere se qualcuno ha portato le pelli con sé.

Io non ho le pelli, non ho la split, ed è cosa molto recente che io abbia una buona tavola. Continuando su questo filone di pensiero, non saprei nemmeno dire quando ho iniziato a ritenere possibile di fare un viaggio così: in Giappone, con lo snowboard, alla ricerca della neve più polverosa, con persone per cui sciare è come per me nuotare. Non so quando ho iniziato a pensare che avrei potuto fare una discesa intera senza cadere, non so quando sia diventato possibile, per me, credere davvero di poter essere capace andare sullo snow.

Tutto quello che so è che c’è stato un momento in cui ci stavo provando, c’è stato un momento in cui ero per terra e sorridevo stupidamente, un momento in cui ho realizzato di essermi fatta molto male. C’è stato un momento, anni dopo, in cui ho sconsideratamente ristretto gli attacchi. Un momento in cui mi tremavano le ginocchia da impazzire con la tavola di nuovo ai piedi.

img_20170102_104546Mi tremavano le ginocchia, e ora, non so come, ma sono qui, a stringere i legacci delle ciaspole, ad ascoltare Juan come fosse un profeta mentre mi spiega come legare la tavola allo zaino. Sono eccitatissima, in macchina ho giocato a pensare alle ultime volte in cui mi sono sentita così: per la mia prima mezza maratona, quattro anni fa. Forse un po’ per il mio primo trail notturno. Forse per la traversata dello Stretto di Messina. In tutti i modi è chiaro che sono alle porte di quello che per me sarà un evento che ricorderò.

Di fianco a me c’è Checco che mi stringe l’ultima volta lo snowboard allo zaino. Se io sono eccitatissima, so che anche lui lo è – e forse pure un filo preoccupato. Infatti io so per certo che nella vita preferisco le salite alle discese, lui è altrettanto sicuro del contrario. Io so di essere più pronta ad arrivare in cima, passo dopo passo, che a tornare giù; lui non sa se sarà in grado di arrivare in cima, ma è certo che poi si divertirebbe un mondo a scendere. Sorrido mentre chiede un chiarimento su come si usano le pelli: mai avrei pensato che avremmo affrontato insieme una prima volta sulla neve.

img_20170102_112906-1Le ciaspole sono allacciate, lo snowboard è ben bilanciato. Funziona. Siamo nel bosco, camminiamo, la punta dello snowboard più alta di me sbatte e si incastra nei rami degli alberi. Camminiamo ancora, arriviamo ad un vecchio impianto dismesso, ci fermiamo ad aspettare Checco che, miracolosamente, non ci sta ancora insultando. Ci penso bene e questa cosa mi riempie di gioia: se Checco non ci ha mandati a quel paese, allora gli sta piacendo.

Quando riprendiamo la salita, noi due rimaniamo indietro. La vegetazione inizia a farsi più rada, fino a che non rimangono solo rari rami di betulle coperti di ghiaccio. Anche oggi suonano al vento. Checco fa sempre più fatica, le pelli devono richiedere più tecnica ed esercizio di quanto pensassi. Decidiamo allora di tornare indietro anche se non siamo arrivati in cima, nonostante la cosa mi bruci parecchio. Stacco le ciaspole, slego la tavola, lego le ciaspole, mi attacco la tavola. Anche se tira vento, riesco a fare tutto in fretta e la cosa mi fa sentire brava. Ho le mani ghiacciate e un filo paura: è il momento di scendere e non si può cadere. Scendere tra le cime delle betulle, scendere fino al bosco, scendere e arrivare al lago sulfureo. Checco è già in basso e mi chiama: devo andare.

Tempo di pelli, tempo di ciaspole

Il primo giorno sulla neve

3c75ea81-21d0-4258-a186-be53f8a0e1a1Sono bloccata con mezzo metro di neve sulla tavola da snowboard. Stavo parlando mentre tagliavo una pista per raggiungere un bordo, probabilmente dicendo qualcosa di inutile, e mi sono distratta per un secondo: quanto è bastato per sbagliare la traiettoria di dieci centimetri e trovarmi davanti la cima di un alberello mezzo sepolto dalla neve. Mi sono dovuta aggrappare ad un ramo per fermarmi e non schiantarmi e ora sono bloccata qui.

Con tutta questa neve sulla tavola in pianura bisogna scavare e spingere un bel po’ e se ci sono quattro o cinque persone che aspettano bisogna scavare e spingere in fretta e se bisogna scavare e spingere in fretta ci si stanca e io, in questi casi, inizio a farmi promesse che non manterrò. Questa volta, la promessa è che dall’anno prossimo e per tutto il resto della mia vita passerò ogni capodanno in Salento.

Siamo un gruppo di quindici e oggi è il nostro primo giorno di neve. Siamo arrivati a Niseko dopo un viaggio lunghissimo e pieno di imprevisti: lasciata la mia nuova amica Lena (ancora commossa) al bed and breakfast di Kyoto, abbiamo preso tre treni e siamo arrivati ad Osaka, dove abbiamo passato la notte. Il giorno dopo abbiamo preso un aereo, aspettato che altri voli in ritardo ci portassero i nostri ultimi compagni di viaggio, preso due furgoni e siamo partiti per Niseko, dove siamo arrivati, dopo qualche peripezia, ad ora di cena.

Sembriamo un bel gruppo, che è esattamente quello che era mancato in Scozia. Non solo siamo tanti, che aiuta sempre ad ammortizzare un pochino eventuali frizioni, ma ci stiamo anche davvero affiatando. Forse il fatto di dovere fare fronte insieme all’impatto con una cultura completamente diversa dalla nostra ci sta aiutando ad unirci ancora più di quanto avrebbe fatto la sola passione comune per la neve. Siamo tutti sulla stessa barca o, in senso più letterale, siamo tutti intorno allo stesso tavolo a dover ingoiare una gelatina ricoperta di briciole, o polvere, a seconda dei punti di vista e della sensibilità delle papille.

Siamo tutti passati per un bagno che non sapevamo usare e, prima o poi, quasi tutti lo abbiamo allagato. Io, ad esempio, ho avuto un ripensamento dopo avere lanciato per la prima volta la funzione “bidet” e mi sono spostata, lasciando che l’indomito getto d’acqua inondasse parquet e tappetino. Ci sono però persone che già raccontano di water impazziti sparare acqua senza comando.

Siamo tutti nelle mani di un taxista perplesso che non sa dove portarci e ed emette strani suoni di perplessità e sconfort. Sul sedile di dietro cerchiamo di non ridere a voce troppo alta, ma non riusciamo a trattenerci completamente dallo sghignazzare.

Ma sono solo io bloccata nella neve qui, ora. Ho provato ad uscirne e sono stanchissima, ma non ce l’ho fatta. Riprendo fiato e mi aggrappo ad un ramo, per riprovare a risollevarmi. Col peso li faccio scossare tutti: sono ricoperti di ghiaccio e, sbattendo l’uno contro l’atro, tintinnano facendo un suono come di cristallo. “Tintintintintin!!!” Mi lascio andare e, liberi dal mio peso, i rami si raddrizzano e ondeggiando tintinnano di nuovo. È una suono magico, una situazione magica che mi ricorda vecchie favole. Lascio che svanisca il suono e torno a scavarmi fuori dalla neve.

Il primo giorno sulla neve