Siamo sul tetto del riad. Le lampade fanno una luce giallognola, il rumore che fanno le onde dell’oceano infrangendosi a riva è fortissimo e mi fa sentire a casa: il rumore del mare è lo stesso in tutto il mondo.
“La neve è fredda e quando ci cammini sopra prima è morbida, poi diventa dura. Ma è sempre fredda”. Insieme a tre ragazze svizzere stiamo spiegando a Ulisse com’è la neve. La temperatura più fredda che lui abbia mai sentito è stata a Rabat, quando durante una giornata d’inverno il termometro è sceso a meno uno. “Ero con un mio amico e abbiamo fatto tutto come se fosse una giornata normale. Eravamo anche vestiti normale e a sera avevo così freddo che ho deciso che non avrei fatto più inverni a Rabat”.
Siamo a parlare con Ulisse sul tetto di questo riad di Taghazout perché quella mattina, per la prima volta, abbiamo provato ad andare sul surf e lui è il nostro istruttore.
Posso provare a spiegare il surf come le ragazze svizzere hanno provato a spiegare la neve. Fare surf è come quando tira vento, tanto tanto vento. È come quando allora ti metti a correre e il vento ti spinge fortissimo in avanti, allora provi a saltare, pensando che magari stia soffiando abbastanza forte da farti volare per qualche secondo, per un metro o due. La gravità sembra sempre più pesante, quando provi a saltare e il vento non ti regge.
Fare surf è quella sensazione lì, solo che funziona. Senti l’onda che arriva e allora inizi ad andare più veloce e ancora più veloce e velocissimo, fino a che non decidi di provare ad alzarti e l’acqua, anziché deluderti, è sorprendentemente stabile e forte e ti regge e ti porta.
E poi si cade tanto, si beve, si gioca con gli spruzzi e ci si rialza un sacco di volte.
Abbiamo anche visitato Essaouira. Ho portato Checco a mangiare il pesce fresco al porto e girando per le stradine della città abbiamo incontrato una famiglia tedesca che avevamo conosciuto alla surf house. Abbiamo mangiato un kebab sul tetto del loro riad. Ci sentiamo ancora per messaggio.
Facendo gli ultimi giri per la città, poco sotto ai bastioni che la cingono, abbiamo incontrato una cucciolata di gattini. Subito commossa dalle palline di pelo nero su rosso su nero, sono andata verso di loro per coccolarli. Mentre mi avvicinavo, il gattino nero si è girato verso di me: aveva gli occhi guasti che sembravano muco. L’ho chiamato Occhi di verme perché ho pensato che se avessi fatto la scema sarei riuscita a mantenere le distanze e a non sentirmi in colpa. Tuttavia, credo di avere firmato la sua condanna nell’istante in cui ho deciso di non portarlo a Bruxelles con me.
Del Marocco ho amato gli stucchi, il sole, i giardini segreti, i colori caldi, sempre caldi perché in un posto così e con quel sole è caldo davvero anche il blu. Ma ho avuto l’ansia per l’arsura, per i campi da calcio disegnati nel deserto, per le bambine che vendevano fichi sul bordo della strada mandando baci alle auto dei turisti, per gli animali assetati.
Siamo tornati a Bruxelles una domenica sera. Ho applaudito per la prima volta nella vita quando l’aereo è atterrato, perché in quel tubo di latta pieno di neonati che piangevano e bambini che correvano e adulti che urlavano non riuscivo a respirare più. E ho applaudito di nuovo, nella mia mente, quando il Belgio ci ha accolti a casa, il cielo velato, 18 gradi che serviva il maglioncino, i segni di una pioggia recente che rendevano chiaro che l’acqua qui non mancava più.