Stabilità [sea]

Siamo sul tetto del riad. Le lampade fanno una luce giallognola, il rumore che fanno le onde dell’oceano infrangendosi a riva è fortissimo e mi fa sentire a casa: il rumore del mare è lo stesso in tutto il mondo.

“La neve è fredda e quando ci cammini sopra prima è morbida, poi diventa dura. Ma è sempre fredda”. Insieme a tre ragazze svizzere stiamo spiegando a Ulisse com’è la neve. La temperatura più fredda che lui abbia mai sentito è stata a Rabat, quando durante una giornata d’inverno il termometro è sceso a meno uno. “Ero con un mio amico e abbiamo fatto tutto come se fosse una giornata normale. Eravamo anche vestiti normale e a sera avevo così freddo che ho deciso che non avrei fatto più inverni a Rabat”.

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Siamo a parlare con Ulisse sul tetto di questo riad di Taghazout perché quella mattina, per la prima volta, abbiamo provato ad andare sul surf e lui è il nostro istruttore.

Posso provare a spiegare il surf come le ragazze svizzere hanno provato a spiegare la neve. Fare surf è come quando tira vento, tanto tanto vento. È come quando allora ti metti a correre e il vento ti spinge fortissimo in avanti, allora provi a saltare, pensando che magari stia soffiando abbastanza forte da farti volare per qualche secondo, per un metro o due. La gravità sembra sempre più pesante, quando provi a saltare e il vento non ti regge.

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Fare surf è quella sensazione lì, solo che funziona. Senti l’onda che arriva e allora inizi ad andare più veloce e ancora più veloce e velocissimo, fino a che non decidi di provare ad alzarti e l’acqua, anziché deluderti, è sorprendentemente stabile e forte e ti regge e ti porta.

E poi si cade tanto, si beve, si gioca con gli spruzzi e ci si rialza un sacco di volte.

Abbiamo anche visitato Essaouira. Ho portato Checco a mangiare il pesce fresco al porto e girando per le stradine della città abbiamo incontrato una famiglia tedesca che avevamo conosciuto alla surf house. Abbiamo mangiato un kebab sul tetto del loro riad. Ci sentiamo ancora per messaggio.

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Facendo gli ultimi giri per la città, poco sotto ai bastioni che la cingono, abbiamo incontrato una cucciolata di gattini. Subito commossa dalle palline di pelo nero su rosso su nero, sono andata verso di loro per coccolarli. Mentre mi avvicinavo, il gattino nero si è girato verso di me: aveva gli occhi guasti che sembravano muco. L’ho chiamato Occhi di verme perché ho pensato che se avessi fatto la scema sarei riuscita a mantenere le distanze e a non sentirmi in colpa. Tuttavia, credo di avere firmato la sua condanna nell’istante in cui ho deciso di non portarlo a Bruxelles con me.

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Del Marocco ho amato gli stucchi, il sole, i giardini segreti, i colori caldi, sempre caldi perché in un posto così e con quel sole è caldo davvero anche il blu. Ma ho avuto l’ansia per l’arsura, per i campi da calcio disegnati nel deserto, per le bambine che vendevano fichi sul bordo della strada mandando baci alle auto dei turisti, per gli animali assetati.

 

C2

Siamo tornati a Bruxelles una domenica sera. Ho applaudito per la prima volta nella vita quando l’aereo è atterrato, perché in quel tubo di latta pieno di neonati che piangevano e bambini che correvano e adulti che urlavano non riuscivo a respirare più. E ho applaudito di nuovo, nella mia mente, quando il Belgio ci ha accolti a casa, il cielo velato, 18 gradi che serviva il maglioncino, i segni di una pioggia recente che rendevano chiaro che l’acqua qui non mancava più.

Stabilità [sea]

Microcosmo [desert]

Lasciato il deserto ci fermiamo a Zagora. Abbiamo bisogno di una connessione internet per prenotare una stanza per la notte e, dopo una ricerca troppo lunga per quelle che sono le dimensioni della città, ci fermiamo in un bar sulla strada centrale. Si chiama chez Abdel Krim e, anche se si rifiuta di accendere il forno e farci la pizza con 50°C, ha bibite Hawaii belle fresche, patatine fritte e un’ottima connessione grazie alla quale riusciamo a prenotare una stanza per la sera. Quando lasciamo il caffè, il responsabile del bar mi chiede di valutare il locale su TripAdvisor. Io però non riuscirò più a ritrovarlo, quindi pago qui il mio debito: se siete disposti a spiegare due o tre volte che volete acqua frizzante e non naturale, se non esigete la pizza a luglio e apprezzate la gentilezza e le buone intenzioni, il caffè Abdel Krim sulla strada centrale di Zagora è il posto che fa per voi. Sedetevi sotto il suo portico ad osservare l’umanità che passa per le strade di una cittadina alle porte del Sahara e navigate su internet alla velocità della luce.

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Dopo avere bevuto tre Hawaii da Abel Krim lasciamo Zagora e viaggiamo verso Ovest, lasciandoci alle spalle il deserto e dirigendoci verso l’oceano. Viaggiamo attraverso il deserto di sabbia. Viaggiamo attraverso il deserto di roccia. Siamo un po’ stanchi e ancora viaggiamo attraverso un deserto di montagna. Verso sera arriviamo vicini a Taroudant.

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La strada si inerpica su una collinetta e Checco smadonna dopo tre curve: “Guarda te dove ci mandano”. Più avanziamo, più è fitta la polvere che si alza dalla strada al nostro passaggio, più si stringe la strada, più aumentano i segni della povertà, più aumentano gli improperi di Checco. Google maps non sa guidarci fino all’ingresso del Riad, ma al secondo tentativo ci troviamo davanti ad un posto cinto da mura e custodito da una grande porta di legno – chiusa. Checco smadonna ancora di più.

Un inserviente ci ode e viene ad aprirci poco prima che rinunciamo e decidiamo di andarcene. E dentro è bellissimo. Mi accorgo dell’ansia e dell’arsura e della sete e delle crepe dei giorni passati solo mettendo piede dentro al castelletto che ci ospita e trovandovi alberi verdi e rigogliosi: limoni e mandarini, oleandri e bouganville, ulivi e cespugli di rosmarino grandi come mobili di casa.

Non abbiamo assistito ad episodi di plateale sessismo, ma se ci penso mi rendo conto di non avere visto, per giorni, una donna accompagnata da un uomo o viceversa: solo donne con donne e maschi con maschi. Qui, dentro queste mura, il gestore del posto è gay. La sera ordiniamo del vino. Mangiamo lì, sul bordo della piscina più bella in cui abbia mai nuotato, sicuri dentro alle mura di questo posto che nasconde un Marocco al contrario, tra i dolci effluvi delle piante laureate, e dei limoni.

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Microcosmo [desert]

Incontri

Partiamo per il deserto in fuoristrada alle 15. La nostra guida, Rouen, è un berbero burbero e taciturno. Non proferisce verbo fino al momento in cui, in un punto sorprendentemente isolato del pianeta, accosta il fuoristrada e chiede se possiamo dare un passaggio ad un suo conoscente che si trova lì e che deve raggiungere l’accampamento. Da quel momento inizia a parlare e sghignazzare con l’amico in una lingua incomprensibile, mentre io calcolo la nostra direzione orientandomi col sole. Così, nel caso in cui ci abbandonino nel deserto.

Passiamo un’oasi in cui le caprette si arrampicano sulle palme e un pozzo in cui l’amico della guida dà da bere a tre cammelli. Li guardo allontanarsi dopo la bevuta e rimango colpita da quanto siano larghe le loro pance. Mi spiegano allora che non hanno bevuto così tanto, ma che sono gravide. Di colpo le ammiro: la gravidanza nel deserto d’estate non è per tutte.

La tappa successiva è già il nostro accampamento. Le dune sono esattamente come me le immaginavo, come devono essere, una tela sempre vergine per disegni di luce e di vento. Fa molto caldo, sudiamo tantissimo e ogni passo è causa di crampi. Mentre camminiamo sul crinale, non dimentico il fatto che, nonostante abbiamo portato con noi più acqua di quanto ci fosse stato consigliato, la stiamo già finendo. Ho moltissima sete.

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All’accampamento con noi ci sono due maestre messicane e un gatto denutrito. Le maestre messicane parlano solo spagnolo e io provo a mettere in pratica quello che ho imparato nei mesi scorsi facendo il corso su internet. Imparo tre parole nuove: el refrigerador (categoria: quello che vorrei che ci fosse), escarabajo (categoria: quello che vorrei che non ci fosse) e estrella fugaz (categoria: quello che c’è e va bene così).

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Di stelle cadenti quella notte, dormendo all’aria aperta sotto il cielo del deserto, sopra un mare di coleotteri e nei paraggi di una gattina di cui non siamo riusciti a placare la fame, ne vedo così tante che ad un certo punto finisco i desideri. Allora inizio ad esprimerli per gli altri. Solo quando finisco gli amici mi addormento.

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Il mattino dopo ci prepariamo rapidi per la partenza: abbiamo finito l’acqua e voglio arrivare il prima possibile in un paese dove bere fino a che non mi si plachi la sete. Il fuoristrada sembra avanzare più veloce della sera prima e finalmente mi decido a parlare con la guida. Mentre mi racconta storie orribili di vipere e altri serpenti, Checco vede una volpe su una collinetta. Giriamo attorno con il fuoristrada costringendo la volpe a scendere. La vedo una frazione di secondo, ma mi basta per riconoscerlo: è un fennec.

Corre via dalla collinetta e si allontana dal fuoristrada. Prima di sparire dietro l’orizzonte, si gira, ci guarda, scuote fiero la coda folta. Poi salta e se ne va.

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(Per occhi attenti: piccolo fennec in paesaggio desertico. Foto scattata dal cellulare con mano tremante e disidratata emettendo gridolini striduli)

Incontri

La strada delle mille kasbah

Saliamo in macchina e guidiamo. Guidiamo attraverso le colline coltivate a terrazza. Guidiamo attraverso la pianura con i campetti da calcio disegnati nel nulla. Guidiamo attraverso il deserto. Guidiamo attraverso il deserto per ore.

La luce del sole è bianca. Con il sole a picco e solo il deserto intorno a noi, non c’è nulla che possa proiettare ombre. Avanziamo in mezzo a polvere color cipria. Quando inizio a stancarmi, cala la sera. Allora la luce del sole si fa dorata e il paesaggio attorno si tinge di arancio, di rosso e di rosa.

M32Arriviamo ad Aït Ben Haddou che il sole sta calando sulle case di terra arroccate sulla collina. Il nostro riad è nella città nuova, e per arrivare alla kasbah dobbiamo attraversare il gigantesco letto di un fiume riarso. Mentre ci avviciniamo, facendo attenzione alle crepe del suolo, Aït Ben Haddou pare un posto fuori dal tempo. Non so se sia perché ha fatto da sfondo a film ambientati nell’antica Roma come a film di fantascienza, o perché, schiacciato dai 50° che ci sono di giorno, il tempo qui effettivamente rallenti. Giunti alle porte della città, tocco le mura: sono veramente di fango.

M33Dopo avere visitato velocemente la vecchia kasbah sotto il sole rovente e avere corso gli ultimi minuti per trovare un posto che ci vendesse una bottiglia d’acqua, ci rimettiamo in macchina per la giornata delle gole: dopo ore di strada desertica arriviamo alle gole del Dades, formazioni di roccia rossa su un’oasi verdissima, e alle gole Todra, due pareti gigantesche strette attorno ad una strada strettissima.

Il nostro Riad a Tinghir ha una piscina dall’acqua verdognola. Mentre due sorelline francesi giocano a fare una gara di nuoto sincronizzato, vediamo due ragazzi con in mano una birra. Nascosti tra le mura del riad ordiniamo finalmente una Casablanca. Domani andremo nel deserto.

La strada delle mille kasbah

Il colesterolo del macaco [mountains]

Il giorno in cui lasciamo Marrakech, lasciamo Marrakech molto più tardi del previsto e ci dirigiamo verso le montagne.

Abbiamo deciso prima di partire di rinunciare alla scalata del Jbel Toubkal, 4167 m, per concederci più tardi qualche giorno al mare, ma il nostro giro ci porta comunque verso la catena montuosa del Medio Atlante.

M21Il navigatore ci dà due ore di viaggio per raggiungere Demnat, la cittadina dove passeremo la notte. Durante la strada incontriamo sempre meno auto, sempre meno piante e sempre più persone a cavallo dei loro asinelli. Una parte di me pensava che coprire lunghi tratti di strada in sella a degli asini fosse una cosa che era finita nel Medioevo. Invece qui è pieno, lungo le strade provinciali e regionali, di persone in abiti lunghi che si spostano in groppa a magri ciuchini. Mi chiedo se la gente, quando le muore l’asinello, almeno piange. Nel dubbio piango io.

Demnat è una fila di casette attorno ad una strada principale polverosa. Il navigatore dice che ad un certo punto troveremo, sulla destra, un negozio di vasche idromassaggio e Jacuzzi. Passiamo la moschea, passiamo il mercato. All’altezza del negozio indicato sulla mappa c’è una bottega alla cui porta sono appese bacinelle di plastica per mettere a bagno i piedi. Sono disponibili in bianco e in azzurro. Rido molto.

M24Il giorno dopo andiamo a visitare le cascate di Ouzoud. Ci sono principalmente Marocchini a fare il bagno nelle vasche naturali del fiume e a passeggiare sulle sue sponde. Sulla guida ho letto che, con un po’ di fortuna, durante la passeggiata si possono incontrare i macachi. Mentre dico a voce alta che non ho mai incontrato una scimmia, eccoli comparire davanti a noi.

M22M23Un ragazzo marocchino ha in mano una scatola di wafer, che dà ai turisti per attirare le scimmie. Prima di rendermene conto ho sul palmo della mano un biscotto alla crema di nocciola e un macaco viene a prenderselo. Buffo come in tre minuti si possa passare da non avere mai visto una scimmia a sentirsi responsabili per l’aumento siderale dei suoi livelli di colesterolo.

L’acqua delle pozze alle cascate non è bella, ma tutto, attorno, è colorato, vivace e in fermento. Fa troppo caldo per mangiare. Consumiamo una pepsi guardando un paio di muli parcheggiati cercare cibo in un cumulo di calcinacci e ci rimettiamo in macchina.

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Il colesterolo del macaco [mountains]

Un altro giorno a Marrakech [city]

Il secondo giorno visitiamo tutte le attrazioni di Marrakech che ancora ci mancano: il Dar Si Saïd, il palazzo el-Badi, il palazzo della Bahia, le tombe saadite, i giardini Majorelle. Ovunque gli stucchi e i colori prevalgono sul caldo e sul sole a picco e andiamo avanti.

M13M14La passeggiata per arrivare in questi posti deve averci portato fuori dai percorsi più battuti dai turisti. Qua, un individuo con un lungo abito blu dice di essere il cantante della vicina moschea e ci esorta a non proseguire sulla strada che abbiamo imboccato, sostenendo che sia chiusa (mentiva e a sera il nostro ospite, sentendo il racconto, si farà una bella risata). Là un cantiere sotto il sole rovente gestisce il traffico di muli magrissimi (non oso fare foto). Più avanti, “cavallo con la lingua di fuori”, come lo chiamerò ripensando a lui per il resto della vacanza, sta fermo sotto il sole senz’acqua, con un carretto attaccato alla schiena e una lingua gonfia e grande ormai più della sua bocca.

Di ritorno dai giardini Majorelle, dove decido che mi piacerebbe avere residenza, passiamo di nuovo attraverso la piazza Jemaa el Fna. Sussulto: poco lontano da me un incantatore di serpenti fa danzare il suo cobra. Mi domando quale cobra lucido e sano di mente resterebbe su questo piazzale a ciondolare davanti ad un signore in tunica che suona il piffero e volto lo sguardo, giusto in tempo per vedere un macaco al guinzaglio con addosso la maglietta di una squadra di calcio. Accelero il passo.

M15La giornata è stata lunga, calda e a sera la stanchezza si fa sentire. Dopo cena, mi trovo ad attraversare nell’aria ancora afosa il suk centrale della città con i crampi allo stomaco. Fiumi di gente non mi fanno passare, nell’aria solo un intenso odore di cumino, e mentre mi sembra di muovere i piedi senza mai avanzare, mi sento di nuovo dentro ad un film. Per la prima volta in 24 ore smetto di canticchiare nella mente “As time goes by” per passare alle note più acute di “Que sera sera“.M17

Un altro giorno a Marrakech [city]

Marrakech [city]

Arriviamo a Marrakech con il taxi. Le recensioni dei vecchi ospiti del Riad verso cui ci stiamo dirigendo dicevano di fare così, o non saremmo mai riusciti a trovare da soli il nostro Riad, annidato all’ombra dell’intrico di stradine del centro di Marrakech.

All’autista manca un pollice. Fuori dal finestrino c’è Marrakech nuova. Mi colpisce che faccia molto caldo e che ci siano aiuole e rotonde con prati così ben tenuti e un sacco di palme e di bandiere. Fuori ci sono solo quattro colori: sabbia, verde, rosso, azzurrognolo.

M02Riemergo dai miei pensieri e ora fuori dal finestrino c’è Marrakech vecchia e davanti a me c’è un cantiere. Ci lavorano degli asini, trascinano dei carretti con dentro il materiale.

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Arriviamo in una strada, a sinistra c’è un negozio di spezie. Sono esposte fuori e hanno la forma di coni molto appuntiti. Qui il taxi si ferma e procediamo a piedi per un vicolo stretto, che gira e diventa ancora più stretto e poi gira e si stringe ancora e ancora. In fondo una porta, quella del nostro Riad.

Siamo arrivati in anticipo e i padroni di casa ci suggeriscono di fare un giro fino a che la stanza non sarà pronta. Così ci dirigiamo al café France, ci sediamo con le sedie rivolte verso piazza Jemaa el-Fna, Checco ordina un croissant e il Marocco sembra già meno strano. Casablanca l’ho visto mille volte e ora, in questo caffè dal nome francese, mi sembra di esserci dentro: “Here’s looking at you, kid”.

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Marrakech [city]

Onsen

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Ho le braccia incrociate sul petto e un piccolo asciugamano in testa. Alle vasche d’acqua calda all’esterno della struttura si arriva sempre dopo avere attraversato un corridoio lunghissimo e dalla temperatura glaciale. Cerco di percorrerlo con dignità, come se il freddo non mi stesse attanagliando, ma non riesco a camminare lentamente come fanno le Giapponesi. Per non correre zampetto e, in fin dei conti, non so se sia molto più dignitoso.

Alla fine del corridoio mi aspettano le vasche più belle che io abbia visto fino ad ora: incastonate nella roccia e incorniciate da stalattiti di ghiaccio e piccoli pupazzi di neve. I pupazzi di neve sono il passatempo preferito delle donne giapponesi nelle onsen: li modellano con cura e li dispongono attorno alle vasche in piccoli gruppi, forse per rinfrescarsi, forse per rilassarsi. Ci sono abeti carichi di neve tutto attorno. Ad un certo punto Giusy ed Ilaria mi fanno notare che c’è anche la luna.

Mentre noi facciamo le ninfe nella nostra onsen femminile, i ragazzi stanno facendo i punk in quella maschile. Anch’io vorrei tanto essere, per una volta, un pochino sovversiva e fotografare questo splendore di posto nonostante sia contro le regole. Dopo la giornata che ho passato oggi, però, proprio non ne ho voglia di uscire dalla vasca, ripercorrere il corridoio con le braccia serrate sul petto, prendere il telefono e tornare indietro.

Oggi io e Checco siamo arrivati qua dopo tutti gli altri perché ci siamo persi facendo sci alpinismo. Forse non lo dovrei scrivere, ché se me lo raccontasse qualcun altro non gli darei neppure il tempo di finire la frase: “Ma come! In montagna non si resta mai soli!” Però è successo che ci siamo separati in due gruppi: uno che tornava a valle dopo la prima discesa, uno che saliva ancora un po’ con le pelli e faceva una seconda discesa prima di rientrare. Ed è successo che questo secondo gruppo si sia diviso in altri due sottogruppi: quello che è arrivato in cima ed è sceso dritto al parcheggio e quello che non è arrivato in cima ed è sceso storto. E io e Checco eravamo il secondo sottogruppo.

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La prima salita era stata stupenda: avevamo guadato un fiume, attraversato un bosco di abeti altissimi, dieci, venti, cinquanta volte più alti di noi e tutti bianchi. Eravamo arrivati su un crinale freddissimo e battuto dal vento dove avevo dovuto impegnarmi tantissimo per mantenere la calma ed effettuare il cambio ciaspole – snowboard nel minor tempo possibile.

La seconda salita era invece stata più difficile: le ciaspole scadenti che avevo noleggiato mi avevano tradita ed ero scivolata giù dal sentiero. Solo i mesi di palestra mi avevano permesso di risalire e rimettermi in piedi, nonostante una ciaspola si fosse girata e lo snowboard si fosse impigliato in una betulla. Siamo rimasti indietro, non abbiamo incrociato le tracce degli altri che erano scesi più in alto e siamo arrivati a valle, da qualche parte.

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C’era il fiume che avevamo guadato al mattino; c’era, in lontananza, la diga che avevamo visto al mattino, ma non c’era un sentiero né un guado per tornare alla strada. In contatto radio con Testo e Davide abbiamo camminato, con le ciaspole scadenti e le pelli, per un sacco di tempo. Non so quanto, ma in quel tempo ho imparato un sacco di lezioni:

  • Vale la pena togliersi i guanti e controllare l’orario in situazioni di difficoltà.
  • Quando prima di partire per un viaggio ci si domanda se sarebbe opportuno portare la frontale, la risposta deve essere sì.
  • Per affrontare giornate impegnative in montagna, devo anche avere attrezzatura di cui mi fido. Possibilmente mia.

Mentre camminavamo ho un po’ temuto che tramontasse il sole e che rimanessimo dispersi, dopo il buio, in una valle ghiacciata in una sera gelida. Checco continuava ad avanzare convinto di stare andando nella direzione giusta, ma io vedevo solo che eravamo leggermente in discesa e avevo paura di dover rifare tutto in leggera salita.

Poi abbiamo incontrato altre persone, ci abbiamo parlato ed abbiamo capito di essere arrivati troppo alti, alla diga sbagliata. Dopo poco abbiamo ritrovato il sentiero  del mattino e attraversato il fiume camminando su un ramo di pino. Davide, Testo e Giovanni ci stavano aspettando e, manco a dirlo, erano bellissimi.

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Quindi non ho voglia, ora, di uscire dalla vasca e prendere il cellulare. Del resto sono quasi certa che i punk immortaleranno tutto, quindi a me non resta che immagazzinare la scena: l’acqua calda, il vapore. I toni dell’azzurro dell’acqua che si mescolano ai toni del bianco della neve che si mescolano ai toni del marrone delle rocce e del legno. Se tengo le spalle fuori dall’acqua non sento freddo, ma se le immergo mi accorgo che in realtà stavano ghiacciando. Giro le braccia in modo da avere i palmi delle mani rivolti verso l’alto: è il modo che mi ha insegnato mia sorella per respirare di diaframma. Agnese è di fronte a me, le spuntano fuori dall’acqua solo la testa e le punte dei piedi e sembra davvero una ninfa. Fotografo la scena con la mente: l’acqua, il vapore che sfuma tutto, lei che galleggia a filo d’acqua, la roccia, il ghiaccio, la neve, la luna, il cielo.

 

Onsen

Tempo di pelli, tempo di ciaspole

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C’è poca neve. Un metro e settanta circa, pochissima neve. Che un metro e settanta sia poca me lo ha detto l’Australiano incontrato in cabinovia il primo giorno di sci; me lo ha detto, storcendo il naso e senza parole, Checco. Me lo sta facendo capire Oreste, che dal telefono segue il meteo in costante attesa dell’annuncio di una perturbazione. Lo dice, alla fine, anche Testo, il nostro accompagnatore in capo, prima di chiedere se qualcuno ha portato le pelli con sé.

Io non ho le pelli, non ho la split, ed è cosa molto recente che io abbia una buona tavola. Continuando su questo filone di pensiero, non saprei nemmeno dire quando ho iniziato a ritenere possibile di fare un viaggio così: in Giappone, con lo snowboard, alla ricerca della neve più polverosa, con persone per cui sciare è come per me nuotare. Non so quando ho iniziato a pensare che avrei potuto fare una discesa intera senza cadere, non so quando sia diventato possibile, per me, credere davvero di poter essere capace andare sullo snow.

Tutto quello che so è che c’è stato un momento in cui ci stavo provando, c’è stato un momento in cui ero per terra e sorridevo stupidamente, un momento in cui ho realizzato di essermi fatta molto male. C’è stato un momento, anni dopo, in cui ho sconsideratamente ristretto gli attacchi. Un momento in cui mi tremavano le ginocchia da impazzire con la tavola di nuovo ai piedi.

img_20170102_104546Mi tremavano le ginocchia, e ora, non so come, ma sono qui, a stringere i legacci delle ciaspole, ad ascoltare Juan come fosse un profeta mentre mi spiega come legare la tavola allo zaino. Sono eccitatissima, in macchina ho giocato a pensare alle ultime volte in cui mi sono sentita così: per la mia prima mezza maratona, quattro anni fa. Forse un po’ per il mio primo trail notturno. Forse per la traversata dello Stretto di Messina. In tutti i modi è chiaro che sono alle porte di quello che per me sarà un evento che ricorderò.

Di fianco a me c’è Checco che mi stringe l’ultima volta lo snowboard allo zaino. Se io sono eccitatissima, so che anche lui lo è – e forse pure un filo preoccupato. Infatti io so per certo che nella vita preferisco le salite alle discese, lui è altrettanto sicuro del contrario. Io so di essere più pronta ad arrivare in cima, passo dopo passo, che a tornare giù; lui non sa se sarà in grado di arrivare in cima, ma è certo che poi si divertirebbe un mondo a scendere. Sorrido mentre chiede un chiarimento su come si usano le pelli: mai avrei pensato che avremmo affrontato insieme una prima volta sulla neve.

img_20170102_112906-1Le ciaspole sono allacciate, lo snowboard è ben bilanciato. Funziona. Siamo nel bosco, camminiamo, la punta dello snowboard più alta di me sbatte e si incastra nei rami degli alberi. Camminiamo ancora, arriviamo ad un vecchio impianto dismesso, ci fermiamo ad aspettare Checco che, miracolosamente, non ci sta ancora insultando. Ci penso bene e questa cosa mi riempie di gioia: se Checco non ci ha mandati a quel paese, allora gli sta piacendo.

Quando riprendiamo la salita, noi due rimaniamo indietro. La vegetazione inizia a farsi più rada, fino a che non rimangono solo rari rami di betulle coperti di ghiaccio. Anche oggi suonano al vento. Checco fa sempre più fatica, le pelli devono richiedere più tecnica ed esercizio di quanto pensassi. Decidiamo allora di tornare indietro anche se non siamo arrivati in cima, nonostante la cosa mi bruci parecchio. Stacco le ciaspole, slego la tavola, lego le ciaspole, mi attacco la tavola. Anche se tira vento, riesco a fare tutto in fretta e la cosa mi fa sentire brava. Ho le mani ghiacciate e un filo paura: è il momento di scendere e non si può cadere. Scendere tra le cime delle betulle, scendere fino al bosco, scendere e arrivare al lago sulfureo. Checco è già in basso e mi chiama: devo andare.

Tempo di pelli, tempo di ciaspole

Il primo giorno sulla neve

3c75ea81-21d0-4258-a186-be53f8a0e1a1Sono bloccata con mezzo metro di neve sulla tavola da snowboard. Stavo parlando mentre tagliavo una pista per raggiungere un bordo, probabilmente dicendo qualcosa di inutile, e mi sono distratta per un secondo: quanto è bastato per sbagliare la traiettoria di dieci centimetri e trovarmi davanti la cima di un alberello mezzo sepolto dalla neve. Mi sono dovuta aggrappare ad un ramo per fermarmi e non schiantarmi e ora sono bloccata qui.

Con tutta questa neve sulla tavola in pianura bisogna scavare e spingere un bel po’ e se ci sono quattro o cinque persone che aspettano bisogna scavare e spingere in fretta e se bisogna scavare e spingere in fretta ci si stanca e io, in questi casi, inizio a farmi promesse che non manterrò. Questa volta, la promessa è che dall’anno prossimo e per tutto il resto della mia vita passerò ogni capodanno in Salento.

Siamo un gruppo di quindici e oggi è il nostro primo giorno di neve. Siamo arrivati a Niseko dopo un viaggio lunghissimo e pieno di imprevisti: lasciata la mia nuova amica Lena (ancora commossa) al bed and breakfast di Kyoto, abbiamo preso tre treni e siamo arrivati ad Osaka, dove abbiamo passato la notte. Il giorno dopo abbiamo preso un aereo, aspettato che altri voli in ritardo ci portassero i nostri ultimi compagni di viaggio, preso due furgoni e siamo partiti per Niseko, dove siamo arrivati, dopo qualche peripezia, ad ora di cena.

Sembriamo un bel gruppo, che è esattamente quello che era mancato in Scozia. Non solo siamo tanti, che aiuta sempre ad ammortizzare un pochino eventuali frizioni, ma ci stiamo anche davvero affiatando. Forse il fatto di dovere fare fronte insieme all’impatto con una cultura completamente diversa dalla nostra ci sta aiutando ad unirci ancora più di quanto avrebbe fatto la sola passione comune per la neve. Siamo tutti sulla stessa barca o, in senso più letterale, siamo tutti intorno allo stesso tavolo a dover ingoiare una gelatina ricoperta di briciole, o polvere, a seconda dei punti di vista e della sensibilità delle papille.

Siamo tutti passati per un bagno che non sapevamo usare e, prima o poi, quasi tutti lo abbiamo allagato. Io, ad esempio, ho avuto un ripensamento dopo avere lanciato per la prima volta la funzione “bidet” e mi sono spostata, lasciando che l’indomito getto d’acqua inondasse parquet e tappetino. Ci sono però persone che già raccontano di water impazziti sparare acqua senza comando.

Siamo tutti nelle mani di un taxista perplesso che non sa dove portarci e ed emette strani suoni di perplessità e sconfort. Sul sedile di dietro cerchiamo di non ridere a voce troppo alta, ma non riusciamo a trattenerci completamente dallo sghignazzare.

Ma sono solo io bloccata nella neve qui, ora. Ho provato ad uscirne e sono stanchissima, ma non ce l’ho fatta. Riprendo fiato e mi aggrappo ad un ramo, per riprovare a risollevarmi. Col peso li faccio scossare tutti: sono ricoperti di ghiaccio e, sbattendo l’uno contro l’atro, tintinnano facendo un suono come di cristallo. “Tintintintintin!!!” Mi lascio andare e, liberi dal mio peso, i rami si raddrizzano e ondeggiando tintinnano di nuovo. È una suono magico, una situazione magica che mi ricorda vecchie favole. Lascio che svanisca il suono e torno a scavarmi fuori dalla neve.

Il primo giorno sulla neve